Fedic

SOPRAVVISSUTI ALLA MEMORIA

di Marcello Cella

 “Così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci
colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi. L’unico modo di resistere è ostinarsi a pensare
con la propria testa e soprattutto a sentire col proprio cuore”.
Tiziano Terzani

Il primo giorno di proiezioni di Italia Film Fedic, prestigioso festival del cortometraggio di Montecatini giunto alla sua 73esima edizione, mi sono sentito apostrofare da un autorevole partecipante con la seguente frase: “eh, questo è un festival di sopravvissuti”. Sul momento non
ho colto il doppio senso insito nella frase del mio interlocutore. Non sapevo se fosse un motto benevolmente ironico su una manifestazione culturale giunta ad un’età in cui gli esseri umani pensano più alla pensione che ad un fulgido futuro di passioni cinefile, o l’amara constatazione che
il pubblico di cinema di oggi sembra più attratto dalle serie televisive e da una fruizione sempre più individualistica e solitaria delle produzioni audiovisive piuttosto che dal cinema d’autore in sala.
Figuriamoci poi i cortometraggi! Sul momento mi ha fatto sorridere. In fondo, avendo iniziato a frequentare il Festival di Montecatini nel lontano 1989, quando stava per cambiare il mondo e la Storia, anch’io posso considerarmi tale. Inoltre la location del festival, la città di Montecatini, con i
suoi continui richiami nostalgici agli anni Sessanta, al Casinò, alle grandi star in vacanza, ai grandi alberghi, con il suo languido tran tran quotidiano in cui il tempo estivo sembra sempre sospeso in un’attesa senza oggetto e senza fine, appare scenografia adatta a questo tipo di riflessioni. Poi
però durante le proiezioni dei film in concorso, dei corti del REFF e di Spazio ONU, dei film dell’archivio Fedic, e perfino del bel lungometraggio di Alessandro Scillitani “120 vs 900”, per non parlare delle mostre sui 70 anni del film “Vacanze romane” e sui bei Manifesti che hanno
accompagnato graficamente gli ultimi 35 anni della manifestazione o la presentazione della bellissima biografia “Valentina Cortese.

Un breve secolo” di Alfredo Baldi, ho cominciato a riflettere sul fatto che quella affermazione buttata lì un po’ per caso avesse in realtà una sua ragion d’essere e non dovesse essere interpretata in una chiave negativa. E se la interpretiamo in questo modo è perchè siamo ormai abituati ad una sorta di isterico consumismo culturale che prevede che in qualsiasi festival cinematografico la parte del leone la facciano esclusivamente le “novità”, quelle strombazzate dalle ultime “news”, spesso sovvenzionate dalle case di produzione a fini pubblicitari.
In realtà il cinema è soprattutto memoria, riflessione sul tempo che passa e non frenesia inseguitrice dell’attimo fuggente. I cinefili lo sanno da sempre che il fascino del cinema è fatto soprattutto da questo struggente tempus fugit, che l’immagine cinematografica è un antidoto contro
l’oblio. E se questa funzione dell’immagine filmica sembra appassita è perchè sempre più il cinema degli ultimi decenni (e i festival che lo hanno spesso proposto) ha inseguito per interesse o subalternità culturale i ritmi sintetici della televisione ed ha quindi accettato di essere uno
strumento funzionale all’oblio, più che un’arma di difesa della memoria.
Se il festival di Montecatini appare a volte un po’ démodé è perchè è sempre rimasto fedele a questa passione un po’ infantile e un po’ resiliente in difesa della memoria, della memoria del cinema, del cinema come memoria del presente e come riflessione sul passato per capire meglio il presente e il futuro. Per questo la sopravvivenza non equivale affatto alla nostalgia, peraltro sentimento nobilissimo di chi ha una storia da raccontare alle spalle e un’identità da difendere contro le ingiurie del tempo, ma appare, alla luce di molte opere presentate da Italia Film Fedic 2023, un tema attualissimo di riflessione, seppur declinato nelle più svariate forme narrative.
Se, fra le opere in concorso, in film come “Lettera dal futuro” del filmaker abruzzese Giuseppe Assorgi, che racconta con grande delicatezza e passione la struggente vicenda di alcuni studenti universitari a L’Aquila prima che il terremoto del 2009 ne distrugga i sogni, o nei documentari
“Terra da mare” del ferrarese Roberto Fontanelli e “Per non dimenticare” del piacentino Rino Olivieri, per non parlare dell’altro bellissimo documentario “Memorie” di Tino Dell’Erba che recupera le fondamentali testimonianze di alcuni anziani partigiani della Brigata ebraica che
partecipò alla liberazione di Torino o del premiato e originalissimo film sperimentale “Sulle dune di Sabaudia” dell’artista laziale Gianluca Mambelli, dedicato ad una particolare memoria di Pier Paolo Pasolini, il discorso sulla sopravvivenza della memoria appare in tutta la sua evidenza, questo
tema attraversa anche i film degli autori più giovani. Infatti la riflessione sulla sopravvivenza, in questo caso declinata come difesa della propria identità personale, culturale, esistenziale è un tema ben presente anche in film come “La musica nel sangue” di Alessandro Zafanella, “La nascita
di Yoshi” del filmaker pisano Marco Rosati e “Mariposa” di Maurizio Forcella, opere i cui protagonisti lottano strenuamente per affermare la propria identità e difendere i propri sogni.
Perfino un’opera poetica d’animazione come “Non morde” della cineasta armena Elina T. Abovyan tratta di una forma di sopravvivenza, in questo caso psicologica, intesa come modo di affrontare e risolvere la propria paura dei cani da parte della ragazza protagonista. Un discorso a parte merita
invece un altro film in concorso e premiato, “Europa ’52” del veneziano Andrea Viggiano, il cui focus narrativo è incentrato su un drammatico episodio di razzismo istituzionale ben ancorato al presente.
Ma se spostiamo l’attenzione sulle altre sezioni del festival il discorso non cambia. In Fedic REFF per esempio, due opere come l’inglese “Roy” di Ross White e Tom Berkeley o “Warsha” della libanese Dania Bdeir trattano lo stesso tema da due angolazioni diverse. In “Roy” il protagonista è
un anziano pensionato che passa il tempo a telefonare a numeri presi a caso dall’elenco del telefono per parlare con qualcuno e sopravvivere alla solitudine. Finché una telefonata particolare cambierà la sua visione passiva e pessimistica della vita e lo costringerà a continuare a lottare e a
sognare. Mentre il protagonista di “Warsha” è un operaio gay che sceglie di fare il solitario gruista a decine di metri dal suolo per poter manifestare liberamente il proprio sogno di essere quello che vuole lontano da occhi indiscreti e dai pregiudizi di una società poco tollerante verso ogni forma di
diversità sessuale.
Nella sezione “Un ponte di pace”, in cui erano presenti opere di cineasti russi e ucraini, opere come i russi “Friend” di Andrey Svetlon e “Tweet tweet” di Zhanna Bekmambetova, o “Me, my eleven years” della giovanissima ucraina Marusya Shuvalova lavorano su temi analoghi. I
protagonisti di “Friend” sono due adolescenti che vivono in una periferia violenta e degradata di una città russa, impegnati a sopravvivere ai bulli che la fanno da padrone nel quartiere di brutti e desolanti casermoni che fa da sfondo alle loro vicende. Mentre “Tweet tweet” è una tenerissima e
originalissima opera in animazione sull’equilibrio instabile e struggente delle nostre vite appese (in questo caso letteralmente) ad un filo con la sola compagnia di un uccellino (la solida ingenuità dell’infanzia che continua a vivere dentro di noi anche quando siamo diventati adulti?) che ci aiuta
a superare le inevitabili traversie dell’esistenza. Con la giovanissima ragazza ucraina Marusya Shuvalova il tema della sopravvivenza assume i toni drammatici dell’attuale guerra in Ucraina e “Me, my elementi years” è il diario filmato della propria quotidianità di guerra, paure e privazioni in
cui vive la protagonista stessa del film.

Nella sezione Spazio ONU, dedicato ad opere di varie nazionalità che hanno per tema la guerra e la sopravvivenza, questa riflessione assume una centralità ancora maggiore. L’americano “Ana’s playground” di Erik D. Howell racconta la vicenda di un gruppo di bambini che gioca a pallone in unacittà devastata dalla guerra. Palazzi anneriti, finestre spaccate, lamiere divelte fanno da cornice ai giochi di questi bambini. Finché il pallone non finisce in una zona controllata da un cecchino. La bambina scelta per recuperare il pallone sarà costretta a giocare un’altra pericolosissima partita
per non finire uccisa dal cecchino. Il luogo non è definito. Potrebbe essere Sarajevo assediata dai militari serbi, o la Siria o l’attuale Ucraina. Ma la vicenda è emblematica. Come lo sono le storie della cineasta iraniana Sima Baghery con “The last flower” e dell’olandese “The sniper of Kobani”
di Dosky Reber: la prima un’opera d’animazione che racconta una Terra devastata da una guerra mondiale, i cui sopravvissuti vagano impauriti e indifferenti l’uno all’altro nel buio rischiarato solo dalle esplosioni alla ricerca di una impossibile via di fuga finché un giorno una ragazza non trova
un fiore rosso, qualcosa che la guerra non è riuscita a distruggere, forse una speranza di vita, mentre la seconda segue con taglio documentaristico la solitaria vicenda di guerra, morte e sopravvivenza di un cecchino curdo che opera fra le rovine della città siriana di Kobane, assediata
dagli jihadisti dell’ISIS.
Due parole meritano anche la presentazione della bella biografia dell’attrice e diva “Valentina Cortese. Un breve secolo (1923-2023)” di Alfredo Baldi e la suggestiva mostra “Trentacinque anni del festival Fedic di Montecatini attraverso i manifesti” a cura di Maddalena Beltramo, Paolo
Micalizzi e Vivian Tullio che in qualche modo lavorano sul tema della sopravvivenza.
La biografia di Valentina Cortese è un omaggio colto e appassionato ad una delle più grandi attrici e dive del nostro cinema, la cui biografia è un tormentato racconto, spesso raccontato in prima persona, di questa ragazza di origini umilissime e di grande carattere che riesce a superare tutte le infinite difficoltà del suo tempo e della classe sociale di origine grazie al sogno di recitare che la condurrà sugli schermi e sui palcoscenici di tutto il mondo. Mentre la mostra sui manifesti degli ultimi 35 anni non è solo un itinerario grafico ed estetico, ma un vero e proprio pezzo di storia di questa associazione e del suo rapporto con i cambiamenti culturali e sociali di questi ultimi 35 anni: infatti non è difficile scorgere attraverso l’impostazione grafica dei manifesti la parallela evoluzione della società italiana ed i cambiamenti culturali e anche politici che ne hanno accompagnato le vicende.


Infine, ma non ultimi, i due film dell’archivio Fedic (recuperati grazie alla meritoria attività di restauro dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea) riproposti in avvio del festival, e cioè “Gli ugolanti” (1964) di Ario Salvini, Alfredo Moreschi e Ruggero D’Ambrosi del Cineclub Sanremo,
e “Si chiamava Terra” (1964) di Corrado Farina del Cineclub Biella. Il primo, un gustoso film di satira di costume sui maldestri sogni di successo canoro e sociale di un gruppo di cantanti da strapazzo coadiuvati da una eroica maestra di canto.

Dal corto “Gli Ugolanti”

Se al posto delle canzoni di Sanremo ci mettessimo l’attuale ambito traguardo della partecipazione ai talent show da parte di molti discutibili artisti del bel (?!) canto non è difficile pensare che il tema sia ancora attualissimo.
Come lo è la riflessione dell’autore di “Si chiamava Terra”, uno straniante film di fantascienza il cui protagonista è un pilota alieno proveniente da un’altra galassia, costretto ad un atterraggio di fortuna sul nostro pianeta che nel frattempo ha deciso di fare a meno dell’uomo, grazie alla sua
autolesionistica fiducia nello sviluppo tecnologico che col tempo ha preso il sopravvento eliminando l’intera razza umana. Un deserto chiamato Terra, in cui è scomparsa la memoria e con essa tutta la storia umana e le sue possibilità di sopravvivenza e futuro.
Ecco, Italia Film Fedic continua ad essere un importante antidoto contro le tendenze autodistruttive della razza umana, almeno sul piano culturale.