Tecniche Cinematografiche

“SOGGETTIVA”

di Marco Rosati

Con il termine ”soggettiva” si intende il punto di vista di un personaggio del film: lo spettatore si trova a vedere con gli occhi del personaggio. Ciò che la cinepresa inquadra è quello che il personaggio sta vedendo. Spesso sappiamo di quale personaggio si tratta, ma altre volte non è dato saperlo, come nei momenti in cui qualcuno sta spiando o vediamo con gli occhi di un assassino che deve essere scoperto. E’ una tecnica molto utilizzata e coinvolgente per lo spettatore: egli si trova in prima persona dentro al film. Nella storia del cinema, un primo momento in cui appare questa tecnica è nel film “Grandma’s Reading Glass” (George Smith, 1900), durante il quale un bambino usa una lente di ingrandimento per vedere gli oggetti intorno a lui.

La soggettiva è un punto di vista particolare ed un coinvolgimento maggiore per il pubblico.  Coinvolgere il pubblico è sempre stato un punto a favore e lo sapevano i personaggi dei film comici nel condividere con loro uno sguardo verso la cinepresa: Charles Chaplin, Buster Keaton, Lauren e Hardy  fino agli ammiccamenti del gobbo assistente Igor interpretato da Marty  Feldman in “Young Frankenstein” (Gene Wilder, 1974) ed il cinema di Woody Allen; hanno sempre saputo che comunicare con il pubblico amplificava l’importanza della visione, dettando le regole del punto di vista. Questo ammiccamento non è andato perso nel tempo, ma anzi, ha trovato spazio nelle decadi per mantenere un rapporto di complicità fra pubblico e personaggio, basti pensare alla maggior parte dei documentari, ma anche al finale di “Psycho” (Alfred Hitchcock, 1969) in cui Anthony Perkins guarda verso lo spettatore, oppure l’inizio di “A Clockwork Orange” (Stanley Kubrick, 1971) con lo sguardo verso la camera, fisso, di Malcom McDowell; di loro si sentono i pensieri e se lo spettatore li sente vuol dire che ha un rapporto già intimo con quel personaggio. Queste non sono soggettive, certo, ma la soggettiva è una chiamata in causa di chi sta guardando il film. Infatti quando un attore guarda verso la cinepresa, là dove è ritenuto un errore, in altri casi è intenzionale, specialmente quando si tratta di una volontà metacinematografica o della soggettiva di un personaggio. A volte in modo completamente dissociato dallo stile del resto del film (vedi lo sparo finale in “The Great Train Robbery”, Edwin S. Porter – 1903), altre volte con una vera funzione drammaturgica associata allo sguardo di un personaggio. Classico esempio in “Vampyr: Der Traum Des Allan Gray” (Carl Theodor Dreyer, 1932) lo spettatore guarda attraverso gli occhi della persona nella bara attraverso una apertura, e chi trasporta la cassa guarda al suo interno: è uno sguardo alla cinepresa, ma non rivolto al pubblico, bensì alla persona nella bara.

Il coinvolgimento dello spettatore diventa più marcato, gli vengono fatti vestire i panni di uno dei personaggi e si trova ad essere faccia a faccia con gli interlocutori. La soggettiva è una manipolazione ulteriore della percezione di chi osserva. Spesso come gioco di stile, altre volte per impressionare lo spettatore che non può reagire (vedi “Full Metal Jacket”, Stanley Kubrick, 1987).

Per un buon uso della tecnica spesso è richiesto vedere il personaggio inquadrandone il contesto e nell’inquadratura successiva usarne la sua soggettiva, così lo spettatore sa con gli occhi di chi stia guardando. Ma a volte non è dato sapere di chi sia lo sguardo: questo è funzionante per i momenti di tensione in cui un personaggio sta spiando nascosto, oppure con gli occhi di un assassino di cui non è dato saperne ancora l’identità. L’inizio di “Halloween”(John Carpenter, 1978) è immediatamente una soggettiva di qualcuno di cui lo spettatore non sa l’identità, ed attraverso i suoi occhi lo si vede impugnare un coltello, indossare una maschera e poi compiere il delitto. Solo a delitto compiuto l’autore ci svela il volto della persona. Lo stesso accade a volte quando in soggettiva il protagonista guarda se stesso allo specchio: è un modo ulteriore per giocare con lo sguardo dello spettatore che adesso si trova identificato, ed una immedesimazione completa che distacca dalla realtà, perché tecnicamente non è riflessa la cinepresa. Un trucco realizzabile ponendo uno specchio finto che è solo una cornice, mentre l’attore appare dall’altro lato fingendo di essere il riflesso di se stesso (vedi “Dr. Jekyll And Mr. Hyde”, Victor Fleming – 1941).

Si moltiplicano quindi gli utilizzi di questa tecnica, specialmente quando la vista del personaggio è modificata dallo stato in cui si trova il personaggio: in “Cape Fear” (Martin Scorsese, 1991) il personaggio interpretato da Nick Nolte si sveglia ed ha lo sguardo annebbiato dal sonno, non riuscendo a vedere chiaramente chi ha di fronte. Nel film “X: The Man With The X-Ray Eyes” (Roger Corman, 1963) il protagonista ha la vista modificata dall’esperimento e lo spettatore è portato a vivere il dramma insieme a lui vedendo ciò che lui vede. La soggettiva può essere incorniciata dalla fessura cui il soggetto sta guardando ( vedi “Psycho” (Alfred Hitchcock, 1969),  mediata da un oggetto, come un binocolo in “Rear Window” (Alfred Hitchcock, 1954), o un cecchino che sta guardando dal mirino ( vedi “JFK”, Oliver Stone, 1991), una maschera oppure un visore notturno come nella particolare scena in “The Silence Of The Lambs” (Jonathan Demme, 1991) dove l’assassino nella casa buia osserva la detective che non riesce a trovarlo brancolando nel buio. “The Silence Of The Lambs”  è pieno di sguardi in camera come soggettive fra due persone che parlano e sembrano parlare proprio allo spettatore, ma il fatto di essere quasi tutti primissimi piani non permettono di essere indicate come soggettive, perché la visuale dell’osservatore sarebbe più ampia proprio in riferimento alla distanza fra gli interlocutori.

Dagli albori del cinema la soggettiva è stata quindi decodificata e sempre riconoscibile. Proprio per questo nascono inganni che portano a far credere che quella sia una soggettiva quando non lo è. Certe inquadratura semi nascoste o attraverso particolari fessure del luogo, fanno credere che ci sia qualcuno nascosto a guardare, quando non è così, aumentando il disagio e quindi la tensione. La falsa soggettiva di fatto è quando sembra lo sguardo del personaggio ma poi, solitamente unita ad un movimento di camera, si svela non esserlo. Un inganno spesso utilizzato da Martin Scorsese: con la soggettiva gli altri personaggi interagiscono guardando in camera, ma sulla solita inquadratura poi l’attore a cui apparteneva lo sguardo lo vediamo attraversare la cinepresa ed entrare in campo; oppure a volte è la stessa cinepresa che si volta ad inquadrare l’attore, senza stacchi di inquadratura. Ci sono esempi particolari in cui la soggettiva acquista valore narrativo: diventa un concetto stilistico in “Lady In The Lake” (Robert Montgomery, 1947), “Hardcore Henry” (Ilya Naishuller, 2015), girati interamente nella soggettiva del protagonista.

La soggettiva è teoricamente il perno su cui ruota “The Final Cut” (Omar Naim, 2004), dove il personaggio interpretato da Robin Williams è un montatore video che adopera le riprese fatte da meccanismi interni al corpo umano collegati agli occhi delle persone. Un caso particolare è “Unfriended” (Levan Gabriadze, 2014) che si svolge interamente attraverso il punto di vista della web-cam di un computer, quindi non è propriamente la visuale di un personaggio, ma di un oggetto che crea immagini. E’ lo stesso criterio che ha spopolato con i found footage, ovvero film visti interamente dalla cinepresa di uno dei protagonisti (vedi “The Blair Witch Project”, Daniel Mayrick e Eduardo Sanchez – 1999) : lo spettatore è portato a immedesimarsi maggiormente nella storia credendo di assistere alla visione di filmati amatoriali ritrovati dopo avvenimenti drammatici. Di fatto è un tipo di cinema che si presta per il genere horror (vedi “Paranormal Activity”, Oren Peli – 2007). Si tratta del punto di vista di un oggetto, di una cinepresa, di una web-cam o di una videocamera di sorveglianza. Il panorama cinematografico ha mostrato che la soggettiva può appartenere ad un essere umano così come ad un animale o ad un oggetto. Soggettive usate in vari modi ne troviamo riconoscibili in tutto il panorama cinematografico, e per citarne alcuni interessanti esempi: ”Vertigo” (Alfred Hitchcock, 1958), “ 8 ½” (Federico Fellini, 1963),  “2001: A Space Odyssey” (Stanley Kubrick, 1968), “Rosemary’s Baby” (Roman Polanski, 1968), “L’uccello Dalle Piume Di Cristallo” (Dario Argento, 1970), “The Evil Dead” (Sam Raimi, 1981), ”Predator” (John McTiernan, 1987),”Laurin” (Robert Sigl, 1989), “Men In Black” (Barry Sonnenfeld, 1997), “Titanic” (James Cameron, 1997), “Fight Club” (David Fincher, 1999), “Russkij Kovceg” (Aleksandr Sokurov, 2002), “Strange Days” (Kathryn Bigelow, 1995), “Le Scaphandre Et Le Papillon” (Julian Schnabel, 2007), “Enter The Void” (Gaspar Noé, 2009), “Passion” (Brian De Palma, 2012).