Tecniche Cinematografiche

SONORO

di Marco Rosati

Orson Welles

La leggenda vuole che il primo intervento audio nel cinema, agli inizi del Novecento, nascesse come esigenza per coprire il rumore del proiettore in sala. La musica veniva suonata dal vivo e la partitura diventò sempre più concentrata non solo sul rumore fastidioso, ma a sottolineare i diversi momenti del film. Per il primo film sonoro dovremo attendere il 1927 con il campione d’incassi “The Jazz Singer” (Alan Crosland). La rivoluzione sonora comportò un largo impiego di nuovi mezzi e personale. Le registrazioni in diretta sul set richiedevano un silenzio a cui fino a quel momento nessuno era stato abituato. Anche i passi degli attori potevano comportare fastidi in fase di registrazione, così come rumori esterni, o mal gestione dei volumi per voci basse e poi alte. Molti attori del muto si trovarono in difficoltà a mostrare la propria voce, per non deludere le aspettative di chi, fino a quel momento, li aveva visti muti. Per Buster Keaton, per esempio, fu un momento difficile, date anche le caratteristiche del suo impassibile personaggio creato. Altri riuscirono nell’impresa, come Charlie Chaplin che entra nel sonoro con “Modern Times” (1936).

Nasce il film di genere musicale, la storia del film si apre a momenti in cui gli attori cantano o ballano, spesso con scenografie maestose e corpi di ballo estesi, dove sempre e comunque è la musica a prevalere. Vedono alla luce capolavori come “An American In Paris” (Vincente Minnelli, 1951),  “Dancing In The Rain” (Stanley Donen e Gene Kelly 1952), “The Blues Brothers” (John Landis, 1980). Si formano divi come Gene Kelly, Ginger Rogers, Fred Astaire.

La gestione del set e degli attori, diventa quindi da riorganizzare. Anche gli spostamenti della cinepresa può dar rumore, ed il regista è impossibilitato a fornire le indicazioni agli attori durante le riprese. E’ necessario quindi registrare l’audio in un secondo momento, ottenendo così un maggior controllo sul risultato ed una migliore qualità gestibile. Per Orson Welles sarebbe stato impossibile terminare “The Magnificent Ambersons” (1942) a causa dei rumorosi ampi spostamenti di carello per le grandi cineprese dell’epoca.  Alfred Hitchcock racconta che i film, volendo, potevano cambiare trama in fase di montaggio, decidendo all’ultimo se una storia d’amore dovesse finire bene o male cambiando solo le parole durante il doppiaggio (quindi se la protagonista piangendo diceva “ti odio”, poteva cambiare in “ti amo” trasformando quelle lacrime di dolore in gioia). Quando sul set non c’era bisogno di un testo perché sarebbe stato sicuramente tutto doppiato, Federico Fellini faceva dire numeri a caso agli attori e comparse, o dire l’alfabeto, o recitare parti teatrali.

Nel doppiaggio nasce quindi la figura importante del rumorista, addetto a doppiare il non parlato, quindi singoli rumori presenti nella scena, come porte che vengono aperte o chiuse, temporali, persone che passeggiano e quanto altro. Ne fa un bell’omaggio Maurizio Nichetti nel film “Volere Volare” (1991). La necessità di rendere il film fruibile a più pubblico possibile ha portato, nella maggior parte dei Paesi, a distribuire film doppiati nella lingua del posto. Questa facilitazione porta alla mancanza della voce dell’attore straniero, ma di pari passo crea una forza lavoro di attori anche nuovi, che si specializzano nel prestare la loro voce. Si sono adoperati nomi importanti come Giancarlo Giannini, che per l’Italia ha doppiato Jack Nicholson, Gerard Depardieu. Michael Douglas, Jeremy Irons, Al Pacino, Dustin Hoffman. La cura dell’aspetto sonoro diventa quindi fondamentale nel determinare la buona riuscita di un prodotto. Stanley Kubrick, per esempio, controllava sempre che i doppiaggi esteri fossero coerenti all’opera originale.  Per un festival, il proiezionista racconta che David Lynch si assicurò personalmente che la proiezione rispettasse il volume originale del film.

Il regista David Lynch

Sul set, il lavoro che una ripresa audio comporta, consiste nell’avere i mezzi ed il personale adeguati: un microfono che spesso è collegato ad un’asta (chiamata giraffa) per registrare gli attori senza ingombrare la scena. L’audio così preso viene salvato su un supporto che in un secondo momento verrà unito alle immagini. L’oggetto simbolo del cinema, il famoso ciak, viene dato anche per fornire un rumore di riferimento che in fase di montaggio permetta di collegare il sonoro con l’immagine.  L’evoluzione tecnica ha permesso di avere un microfono direttamente sulla cinepresa, così da aver immediatamente l’audio collegato alle riprese, utile per situazioni documentaristiche o amatoriali. Rimane una scelta di stile o di convenienza, perché comunque le tecniche vengono ancora usate tutte, sia di doppiaggio che di presa diretta o entrambe insieme.

Per le colonne sonore, le musiche che accompagnano la visione del film, molti compositori e musicisti importanti si sono dedicati a crearne di importanti, spesso formando sodalizi molto produttivi, come Tim Burton con Danny Elfman, oppure Federico Fellini e Nino Rota, o anche Sergio Leone con Ennio Morricone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ennio Morricone e Sergio Leone

 

L’utilizzo della colonna sonora varia in base alle scelte personali. Sergio Leone le voleva in anticipo così da farle sentire durante le riprese, per permettere agli attori di sentire meglio il momento. Giuseppe Tornatore racconta che per “La leggenda del Pianista sull’Oceano” (1998) aveva descritto dettagliatamente a Morricone ciò che si sarebbe visto durante la musica. C’è poi chi usa altre musiche già note, come spesso ha fatto Quentin Tarantino. Una colonna sonora azzeccata crea album musicali storici (vedi e senti “Easy Rider” – Dennis Hopper, 1969).

Avere il controllo sull’audio permette di sviluppare l’inventiva e creare effetti sonori particolari, evidenziare gli aspetti emotivi, caricare di attesa una situazione. Un silenzio prima di un’esplosione è utile a rafforzarne l’impatto (vedi “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, 1970). Un picco sonoro nel momento di massima suspence aumenta l’effetto di paura (vedi “Psycho” di Alfred Hitchcock, 1960).  I singoli suoni possono essere modificati con vasto uso di effetti, come riverberi, distorsioni, ritardi, delay e così via. La musica può essere diegetica quando è presente nella scena, come per esempio può provenire da una radio, o da una persona che sta cantando; può essere extradiegetica quando è solamente musica di sottofondo che solo lo spettatore sente.

Le scelte sonore determinano così le sensazioni di chi osserva. Una tecnica che sta diventando sempre più utilizzata è immergere lo spettatore nei panni del protagonista o di un personaggio. Accade per esempio in “Saving Private Ryan” (Steven Spielberg, 1998), dove lo scoppio della bomba rende quasi sordo il soldato Tom Hanks che rimane confuso e l’audio che sentiamo è ciò che sente lui in quel momento. Lo stesso in “Sound of metal” (Darius Marder, 2019) dove il protagonista ha gravi problemi di udito ed in vari momenti del film sentiamo con i suoi orecchi, condividendo con lui i suoi fastidi ed i silenzi. Altri utilizzi si trovano per esempio in: “Top Hat” (Mark Sandrich, 1935), “The Great Dictator” (Charles Chaplin, 1946), “Woodstock” (Michael Wadleigh, 1970), “Jesus Christ Superstar” (Norman Jewison, 1973), “Round Midnight” (Bertrand Tavernier, 1986), “Dancing In the Dark” (Lars Von Trier, 2000), “Sur Mes Levres” (Jacques Audiard, 2001), “Moulin Rouge!” (Baz Luhrmann, 2001), “Inland Empire” (David Lynch, 2006), “A Quiet Place” (John Krasinski, 2018), “Once Upon A Time In …Hollywood” (Quentin Tarantino, 2019), “CODA” (Sian Heder, 2021).