MOVIMENTI DI CAMERA
di Marco Rosati
“Guidata dal regista, la macchina da presa si assume la responsabilità di eliminare tutto ciò che è inutile e di dirigere l’attenzione dello spettatore in modo tale che egli veda solo quello che di importante e di caratteristico c’è da vedere” (Vsevolod I. Pudovkin)
La dinamicità che l’invenzione cinematografica ha donato alla ferma immagine, trova perfetta armonia quando è anche la cinepresa a muoversi. Lo sguardo dello spettatore viene portato oltre i margini dello schermo, viene guidato senza stacchi di montaggio, a volte in modo fluido ed elegante, altre volte concitato come l’atmosfera richiede. La cinepresa su apposito cavalletto poteva essere posta su un veicolo e far viaggiare l’immagine attraverso il movimento di un treno, di un calesse, di una bicicletta, di un’automobile, di un elicottero, o un aereo. Effetti adrenalinici per lo spettatore, essere alla guida insieme a Steve McQueen in “Bullitt” (Peter Yates, 1968), o correre di pari passo con Tom Cruise in “Mission: Impossible” (Brian De Palma, 1996) o volare fra le bellezze di Roma nell’inizio de “La Grande Bellezza” (Paolo Sorrentino, 2013). Tutto possibile a partire dalle prime scelte di muovere fisicamente la cinepresa (vedi “Celovek S Kinoapparatom” di Dziga Vertov, 1929) unito al bisogno di ampliare tecnicamente questi movimenti con il progressivo sviluppo di mezzi tecnici che favorissero una evoluzione visiva.
A partire dal semplice movimento su perno, che permette la classica panoramica, nominata così per l’evidente utilizzo iniziale di mostrare il panorama, evoluta poi in “panoramica a schiaffo” quando il movimento è molto veloce come se fosse il voltare la testa per guardare velocemente qualcosa, utilizzata spesso in dialoghi frenetici oppure per mostrare cosa cattura l’attenzione del personaggio (Martin Scorsese l’ha spesso usata); fino all’utilizzo di un carrello posto su rotaia per studiati movimenti sul set, o su un auto, per seguire, ad esempio, pari passo la cavalcata di indiani (vedi il cinema di John Ford); per poi alzarsi o abbassarsi mediante l’asta di un dolly per ampliare la visuale ed allargare l’inquadratura (vedi Sergio Leone); alle più moderne Go-Pro, molto usate in ambito amatoriale e casalingo, che grazie alla loro piccola dimensione, permettono di essere poste ovunque (in testa per una corsa in bicicletta o lanciandosi con il paracadute); come in cielo, anche in acqua, con camere subacquee dopo i primi esperimenti attraverso acquari che davano l’illusione di filmare sott’acqua si è poi pensato di andarci davvero sotto il mare o a pelo dell’acqua (vedi i documentari di Jacques Cousteau); oppure ampliarne la dinamicità della camera a mano, mediante Steady Cam o il più economico Gimbal (molto usato da videomaker e amatori per la sua praticità), per essere vicini ai movimenti degli attori o accompagnare lo spettatore in rocamboleschi punti di vista (vedi i film di Gaspar Noe) per aumentarne il realismo, per essere sempre dinamici e pronti all’azione durante le riprese di un documentario, per creare una soggettiva o con imbracature che consentono un particolare punto di osservazione che non abbandona il personaggio (vedi Spike Lee in quasi tutti i suoi film); per volare ancora più in alto con riprese da aereo, drone o in elicottero, che in “Apocalypse Now” (Francis Ford Coppola, 1979) oltre a offrire una immagine dall’alto, dona realismo per la presenza degli elicotteri da guerra e quindi una maggior partecipazione sensoriale, come se lo spettatore stesse in uno di quegli elicotteri.
Fissa o movimento ogni scelta ha un senso, al di là della spettacolarizzazione spesso caotica di certi film d’azione, dove l’azione viene data ai movimenti di camera e ad un montaggio frenetico, creando un caos visivo spesso indecifrabile per lo spettatore, che confuso non riesce a seguire ciò che sta accadendo. Quindi ogni movimento ha una sua logica di esistere, ben intuibile quando và oltre il semplice manierismo tecnico. Ciò può diventare una caratteristica per uno stile riconoscibile, come nel cinema di Wes Anderson, dove la cinepresa si muove mediante linee ben nette, orizzontali o verticali, ad accompagnare lo spettatore attraverso le varie situazioni, quando non sono le stesse a variare mediante soluzioni scenografiche. Un secolo di cinema per dimostrare che le dinamiche di un tempo sono ancora attuabili, per uno spettacolo visivo elegantemente articolato, che tiene in molta considerazione attore unito a scenografia.
Continuando sulla scia dello stile, riconoscibile per dettaglio minimalista scenografico e movimenti netti di camera è certamente Stanley Kubrick, che proveniente dalla fotografia, mantiene un punto fermo sull’azione, diventando frenetico quando anch’essa diviene tale, come insegna la scuola del cinema del nord. Doveroso citare anche Brian De Palma, tecnico per eccellenza, in ogni suo film ha sempre fatto danzare la cinepresa elevando le potenzialità tecniche dell’arte cinepresa.
Il piano sequenza, che non comprende immediati stacchi di montaggio, è il possibile contenitore di molti, o tutti, i movimenti sopra citati. La computer grafica ha alleggerito il compito di macchinisti, direttori ed operatori, creando movimenti impossibili, ma molto apprezzati visivamente dal pubblico (vedi “Spider Man” di Sam Raimi, 2002). Proprio perché il piano sequenza può essere ricco di movimenti, spesso le tecniche sono servite a creare queste magiche fluidità: in “Professione: Reporter” (Michelangelo Antonioni, 1975) il lungo movimento di camera finale è stato studiato perché la cinepresa uscisse dalle piccole fessure della grata alla finestra, reso possibile grazie alla invisibile apertura della stessa e quindi ad un preciso lavoro tecnico.
Ogni movimento ha quindi una sua grammatica ben definita unita alle emozioni che suscita. Ad esempio, una inquadratura dall’alto è il sintomo che stia per accadere qualcosa di brutto, perché provoca un senso di vertigine; ecco quindi che se usata all’interno di una commedia che voglia far divertire, crea un disturbo indesiderato. Un movimento a mano dona realismo, spesso il movimento viene accentuato proprio per sottolinearne questo effetto, ma se usato per esempio in una intervista che necessita compostezza, questa risulterà un errore per lo spettatore attento. Uno zoom serve ad attirare l’attenzione su qualcosa, ma se invece viene usato per sostituire un carrello questo diventa visivamente di poco gusto. La poetica immagine dall’alto era ciò che da sempre indicava “lo sguardo divino dall’alto”, proprio perché raramente usata per questioni pratiche, quando c’era era motivata con un senso di onniscienza; adesso con il drone è alla portata di tutti e diventa fuori luogo, dando l’impressione di assistere ad un documentario naturalistico là dove anche la musica non collabora. Ecco perché la tecnica è al servizio dell’uomo e non deve essere il contrario. Per consigliare qualche film sarebbe da prendere la filmografia completa della storia del cinema, perché dagli immobili albori, fino al caotico fine secolo, ogni film è un esempio, al di là ovviamente di film a camera fissa per buona parte del tempo (vedi “Begotten” di Edmund Elias Merhige, 1990), quindi mi limito a citarne alcuni fra i più evidenti: “Stagecoach” (John Ford, 1939), “Psycho” (Alfred Hitchcok, 1960), “A Clockwork Orange” (Stanley Kubrick, 1971), “Profondo Rosso” (Dario Argento, 1975), “Raging Bull” (Martin Scorsese, 1980), “Evil Dead” (Sam Raimi, 1981), “C’era Una Volta In America” (Sergio Leone, 1984), “Satantango” (Bela Tarr, 1994), “Lost Highway” (David Lynch, 1997), “Snake Eyes” (Brian De Palma, 1998), “Kill Bill: Volume 1” (Quentin Tarantino, 2003), “The Dark Knight” (Christopher Nolan, 2008), “Grand Budapest Hotel” (Wes Anderson, 2014), “Hardcore Henry” (Il’ja Najsuller, 2015), “Mad Max: Fury Road” (George Miller, 2015), “Climax” (Gaspar Noe, 2018).