“COLORE”
di Marco Rosati
Il cinema nasce in bianco e nero, ma presenta già ai suoi inizi la volontà di valorizzare certe immagini donandole colore, andando ad applicare la tinta ad ogni singolo fotogramma voluto. Uno dei primi esempi di questo minuzioso lavoro di dettaglio è attribuito al film “The Passion Play: Life And Death Of Christ” (Lucien Nonguet e Ferdinand Zecca, 1903) dove i dettagli colorati a mano risaltano sul bianco e nero originario.
L’uso del colore comportava un notevole costo, in alcuni casi veniva investito per rendere più spettacolari certe sequenze o finali interi di opera, come nella virata al colore nell’ultimo rullo di “The House Of Rothschild” (Alfred L. Werker e Sidney Lanfield, 1934). Il decisivo gradino verso il colore lo abbiamo sul finire degli anni ‘30, quando la piccola Dorothy nel film “The Wizard Of Oz” (Victor Fleming, Mervyn Leroy, King Vidor, 1939) entra nel fantastico mondo di Oz che è tutto a colori. Nell’industria cinematografica pochi possono permettersi il privilegio di girare a colori e così per molti anni a seguire, fin quando i costi di produzione si adeguarono alle spese e la pellicola colorata divenne accessibile a tutti. Ecco che nel momento in cui un autore poteva scegliere di passare dal colore al bianco e nero a proprio piacimento, il bianco e nero divenne una scelta narrativa o di stile; così come sul colore furono fatte sperimentazioni e valorizzazioni (vedi “Deserto Rosso” – Michelangelo Antonioni, 1964). La storia narra che Alfred Hitchcock virò volutamente in bianco e nero il suo “Psycho” (1960) per permettere di lasciare le sequenze del sangue che altrimenti, con il colore, sarebbero state censurate. Quando il colore è divenuto alla portata di tutti, il passaggio al bianco e nero è diventato stratagemma per sottolineare un certo tipo di situazioni, per esempio il flashback: spesso quando di un personaggio viene raccontato un avvenimento passato, le scene virano sul bianco e nero o color seppia proprio per indicare sia la differenza temporale che l’identificazione verso qualcosa di passato (vedi “Nymphomaniac Vol. 2” – Lars Von Trier, 2014), oppure il contrario, colorando il passato e facendo in bianco e nero il presente, come ha fatto Claude Lelouch in “La Bonne Année” (1973). Si tratta di un cambio di colore classico. L’uso invece del colore in modo particolare diventa per gli autori un modo espressivo di identificazione per la propria opera: per Alfred Hitchcock il colore può differenziare una situazione triste da una allegra. Per Lars Von Trier è scelta fotografica e vira in giallo “Forbrydelsens Element” (1984) e “Riget” (1994). Il regista Krzysztof Kieslowski filma una trilogia dedicata ai colori della Francia: blu, bianco e rosso, rendendo ognuno dei singoli tre colori predominanti all’interno del film. Esiste poi un cinema che tende a mischiare situazioni di colore con scene in bianco e nero, per motivi di collocazione narrativa, stilistica o per gusto fotografico. Un misto vi è in “The Blair Witch Project” (Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, 1999) per l’utilizzo di varie cineprese e pellicole, così come Oliver Stone nel periodo in cui ha realizzato “JFK” (1991), “Natural Born Killer” (1994), “Nixon”(1995) e “U Turn” (1997), dove il colore varia frequentemente, in alcuni casi con l’utilizzo del negativo della pellicola. Pura scelta visiva è quella di Steven Spielberg per “Shindler’s List” (1993) dove l’intero film girato in bianco e nero presenta una sequenza dove è evidenziato con il colore rosso il cappotto della bambina prigioniera.
Allo stesso modo la realizzazione di “Europa” (Lars Von Trier, 1991) vede il colore posto in momenti particolari, dettagli, mediante una particolare composizione di immagini a colori riprese davanti a una proiezione in bianco e nero.
Il colore si mischia al bianco e nero anche in altre pellicole, come in “Pleasantville” (Gary Ross, 1998) dove nella trama la finzione di un telefilm si mischia alla realtà cittadina donando pian piano colore alle cose ed alle persone, mutando positivamente il loro stato d’animo, al pari del contesto che appare molto più grazioso.
Una volta che il colore diventa accessibile a tutti, girare un film in bianco e nero diventa una scelta d’autore. La scelta in “The Artist” (Michel Hazanavicius, 2011), così come “Mank” (David Fincher, 2020) o “Curtiz” (Tamas Yvan Topolanszky, 2018) serve ad immergere lo spettatore nell’epoca dei fatti narrati, epoca del bianco e nero. Lo stile fotografico si concentra quindi sull’utilizzo della luce, dei contrasti, delle ombre. Allo stesso modo in “The Tragedy Of Macbeth” (Joel Coen, 2021) colloca temporalmente la storia, oltre a mascherare la costruzione digitale delle scenografie. Alcune produzioni indipendenti scelgono il bianco e nero per mascherare la bassa risoluzione della cinepresa. Infine la ricerca che ha permesso Kenneth Branagh nei suoi “Bealfast” (2021) e “Death On The Nile” (2022) è esempio di come il colore sia un punto di riferimento anche dopo un secolo. Alcuni autori ne hanno fatto uno stile e parte della loro produzione è fatta in bianco e nero, vedi per esempio Bela Tarr (“Satantango” nel 1994 e “A Torinoi Lo” nel 2011) oppure Jim Jarmush (“Down By Law” nel 1986, “Dead Man” nel 1995, “Coffee And Cigarettes” nel 2003). Altri autori hanno preferito mischiare gli stili, donando una fotografia varia, come Andrej Tarkowski (“Soljaris” nel 1972, “Stalker” nel 1979, “Offret” nel 1986) e Quentin Tarantino (“Kill Bill: Volume 1” nel 2003, “Death Proof” nel 2007, ”Once Upon A Time In Hollywood” nel 2019). Il colore può essere parte integrante della narrazione con particolare attenzione alle scenografie (vedi “Anchiporuno” – Sion Sono, 2016) o donando veri spettacoli pirotecnici (vedi “This Island Earth” – Joseph Newman, 1955). Nel caso particolare di Derek Jarman per il suo film “Blue” (1993), lungometraggio composto da un unico fotogramma di colore blu, dovuto alla scelta di Jarman, divenuto cieco, che ha scelto appositamente il blu oltremare creato dall’artista Yves Klein (International Klein Blue). Con l’avvento del digitale ha preso ancor più piede la correzione del colore in post produzione, che va a modificare il colore dopo il set. Questo permette di inserire effetti che caratterizzano il film, come l’effetto di vecchia pellicola usato in Grindhose (Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, 2007) che omaggia il cinema di serie-B dove spesso venivano usate pellicole di bassa qualità e montaggi poco curati.
Il colore non solo come passo avanti nella tecnica fotografica, ma anche mezzo di espressione che amplifica le volontà comunicative attraverso il cinema. Vedere ad esempio: “Napoleon” (Abel Gance, 1927), “A Matter Of Life And Death” (Michael Powell e Emeric Pressburger, 1946), “Ivan Groznyj II : Bojarskij Zagovor” (Sergej Michajlovic Ejzenstejn, 1946), “Bonjour Tristesse (Otto Preminger, 1958), “Sei Donne Per L’Assassino” (Mario Bava, 1964), “The Masque Of The Red Death” (Roger Corman, 1964), “Cardillac” (Edgar Reitz, 1969), “Suspiria” (Dario Argento, 1977), “Die Sehnsucht Der Veronika Voss” Rainer Werner Fassbinder (1982), “Imperativ” (Krzysztof Zanussi, 1982), “Epidemic” (Lars Von Trier, 1987), “They Live” (John Carpenter, 1988), “The Frighteners” (Peter Jackson, 1996), “Memento” (Christopher Nolan, 2000), “The Man Who Wasn’t There” (Joel Coen, 2001), “I’m Not There” (Todd Haynes, 2007), “The Eyes of My Mother” (Nicolas Pesce, 2016), “Antrum: The Deadliest Film Ever Made” (Michael Laicini e David Amito, 2018), The Lighthouse (Robert Eggers, 2019), “The French Dispatch Of The Liberty, Kansas Evening Sun” (Wes Anderson, 2021), “Leonora Addio” (Paolo Taviani, 2022).