Tecniche Cinematografiche

INQUADRATURA

di Marco Rosati

Si parla di tecniche di inquadratura quando queste utilizzano una grammatica comunicativa. Sin agli albori cinematografici si è notato come fosse essenziale, a fini narrativi e non solo, andare oltre la unica immagine  totale, montrando altri punti di vista. Per il regista Lev Kulesov la unica inquadratura distraeva dal notare nll’attore uno sguardo, un aggrottamento di ciglia o altri piccoli avvenimenti narrativi, oltre alla difficoltà di questi ad essere notati soprattutto da un pubblico seduto distante dallo schermo. Per Kulesov ogni singolaz inquadratura sono letter di una parola, di una frase, di un racconto. Posizionare la cinepresa quindi ha un potenziale espressivo, oltre che narrativo, che nel tempo è stato analizzato e messo in pratica.  Ne segue che molti autori sono diventati riconoscibili per una scelta propria dei vari punti di vista, ottenendo ottimi risultati quando la scelta è mirata a una necessità narrativa e visiva. Se per esempio la scena vede un uomo seduto al tavolo che prende un sorso di acqua, non sarà necessario mostrare la mano che afferra il bicchiere a meno che questo gesto abbia un valore narrativo, per esempio mostrare che la mano sente la temepratura dell’acqua con il dito prima di prendere il bicchiere. Se non ha motivo narrativo, spesso serve per motivi di ritmo, quindi un montaggio serrato può essere utile per dare movimento all’azione, ma anche per scelta stilistica preferendo raccontare in dettagli. La finalità è scegliere dove posizionare lo sguardo dello spettatore, cosa mostrargli, dove porre la sua attenzione. Meravigliarlo con effetti speciali che abbelliscono l’immagine, unita alla capacità qualitativa di un buon direttore della fotografia, con le competenze del reparto scenografico e luci. Il cinema è di fatto un mezzo visivo, quindi va tenuta presente la qualità dell’immagine per non affidare tutto il risulato a un buon racconto o una buona prova d’attore. Storie bell possono essere rovinate da una pessima fotografia impiegata solo a fini descrittivi. Ecco perchè è essenziale proporre una esperienza visiva, la dove il cinema è legato all’immagine e non un mezzo per raccontare storie.  Esistono vari pensieri nell’intendere cosa voglia dire inquadrare: significa quadrare, fare il quadro, quindi comporre la fotografia. Quando viene svolta una ripresa, specie di una sequenza di mutevole durata, all’interno di questa possono esserci differenti inquadrature. Su fonti ufficiali si trova anche che inquadratura e ripresa siano la stessa cosa, ma sono convinto che esista la netta differenza e che sia infine la scelta del quadrato visivo che si vuol riprendere. Chiedere all’operatore di inquadrare significa quindi preparare la successiva ripresa. Verrebbe immediato il pensiero al quadro come inteso in pittura. A ritroso nel tempo era il modo precedente la fotografia per imprimere momenti, persone, luoghi o crearne di fantasia. Nello stesso modo questo si è riproposto nel cinema.

Per Stanley Kubrick era impensabile che un regista non sapesse di fotografia. Lo trovava indispensabile. Perchè è dalla fotografia che siamo arrivati al cinema ed è l’immagine fissata su supporto che permette a un’opera cinematografica di esistere. Il punto di vista del regista deve servire quindi da stimolo per il direttore della fotografia, perché la sua mente immagina il migliore modo espressivo per mostrare ciò che il limite tecnico non permette: i sentimenti. Le tecniche di inquadratura si basano quindi sulle stesse della foto, seguendo regole note o meno, che non sfuggono all’occhio del più esperto o dello spettatore. Perché la composizione, in base al buon gusto e a queste regole, determina il risultato vincente di una ripresa. Ecco quindi attuabili quelle regole che contemplano le linee di fuga in pittura, o la regola dei terzi in fotografia, o della spirale aurea presente in natura.

Le regole poi comunicative sono divenute essenziale riferimento per la narrazione di una storia. Queste permettono solo a livello di muta immagine, di dare espressione al ricordo una sensazione propria e capire così lo stato d’animo del personaggio. Nel film “Sommarlek” (1951), Ingmar Bergman mostra il ricongiungimento dei due innamorati non mostrando i loro volti baciarsi, ma i piedi di lei, ballerina, alzarsi sulle punte per raggiungere il volto di lui. Questa è la scelta di cosa inquadrare/mostrare per descrivere un fatto. La cinepresa non è fatta per stare esclusivamente a spalla ma ha una volendo infinita quantità di angolazioni necessarie ad uno sviluppo visivo. Anche per questo l’utilizzo del cavalletto è andato via via diminuendo, perché risultante quasi un impedimento. E’ invece usata spesso in movimento o anche mossa intenzionalmente quando serve dare un senso di realismo che ricorda appunto una ripresa amatorialmente mossa. Si trovano riflessi o impedimenti visivi che aumentano la sensazione dello spettatore di vedere qualcosa di “realmente accaduto”, e quindi il vetro dell’obbiettivo per esempio si sporca di fango durante un inseguimento o viene schizzato di sangue in una sparatoria. Occupare parte dell’immagine è un modo per definire meglio lo spazio e risaltare una figura sullo sfondo, utilizzata in fotografia e nota come inquadratura “di quinta”. Tipicamente cinematografica è la soggettiva, ovvero il punto di vista dagli occhi di un personaggio, che permette varie inquadrature in base al suo osservare. Inquadrature in diagonale per esempio danno un senso di straniamento, usate spesso per soggettive allucinate. Perché una inquadratura descrive anche il personaggio, così come un avvicinamento o allontanamento visivo preclude una sensazione di distacco o di interesse. Ecco perché l’importanza di conoscerne i significati ed evitare così un uso casuale che distorce le intenzioni comunicative. Scegliere un punto di vista dal basso o dall’alto si differenzia nelle sensazioni che suscita: dal basso dona un senso di maestosità, come se ingrandisse la figura. Dall’alto invece la schiaccia, opprime, mentre se è da molto alto dà un senso di onniscienza o se è a strapiombo perpendicolare al terreno descrive un imminente situazione di pericolo. Alfred Hitchcock, che disegnava storyboard preparatori per ogni scena, conosceva questo tipo di grammatica visiva e l’ha adoperata in ogni suo film, vedi per quanto riguarda una inquadratura dall’alto, ad esempio, una delle scene di maggior tensione nel suo “Psycho” (1960).

Utile quindi una catalogazione che dal pioniere David Griffith in poi è stata il verbo per analizzare e creare le scene attraverso punti di vista. Partendo dal dettaglio di un oggetto o il particolare di una parte del corpo umano, fino al primissimo piano quando si concentra la visione sul volto. Allontanandosi un minimo per comprendere una parte di collo ecco il primo piano, per passare poi ad un mezzo busto ed al piano americano che invece taglia dalle ginocchia fin sopra la testa (chiamato così perchè usato per mostrare le fondine delle pistole nei film western). Se invece si vuol mostrare il soggetto completo si parla di figura intera, mentre il complessivo, che si riferisca a una persona o a una scena, si nomina totale. I campi poi variano dal lungo al lunghissimo. Per ognuna di queste ovviamente se ne contempla se intera o una parte (quindi ad esempio si può parlare di semi totale). Quindi una chiara distinzione motivata da intenti narrativi e visivi, che abbiano coerenza comunicativa e armonia visiva. Ciò contribuisce alla buona riuscita del film. Di esempi ce ne sono molti durante il secolo cinematografico, dagli albori in poi: “Intolerance” (David Griffith, 1916), “Nosferatu” (Friedrich Murnau, 1922), “Metropolis” (Fritz Lang, 1927), “Citizen Kane” (Orson Welles, 1941), “Vertigo” (Alfred Hitchcock, 1958), “Ivanovo Detstvo” (Andrej Tarkovskij, 1962), “8 e ½” (Federico Fellini, 1963), “C’era Una Volta Il West” (Sergio Leone, 1968), “Tsvet Granata (Sergej Paradzanov, 1969), “Viskningar Och Rop” (Ingmar Bergman, 1972) “Picnic At Hanging Rock” (Peter Weir, 1975) “Barry Lyndon” (Stanley Kubrick, 1975), “Raging Bull” (Martin Scorsese, 1980), “Die Sehnsucht Der Veronika Voss” (Rainer Fassbinder, 1982), “Blade Runner” (Ridley Scott, 1982), “Ran” (Akira Kurosawa, 1985), “The Belly Of An Architect” (Peter Greenaway, 1987), “Satantango” (Bela Tarr, 1994), “Volver” (Pedro Almodovar, 2006), “The Tree Of Life” (Terrence Malick, 2011), “Grand Budapest Hotel” (Wes Anderson, 2014), “Trudno Byt Bogom” (Aleksej German, 2014), “Poor Things” (Yorgos Lanthimos, 2023).