Tecniche Cinematografiche

“ZOOM”

a cura di Marco Rosati

Lo zoom (letteralmente “ingrandimento”) è un movimento ottico in avanti (zoom in) o indietro (zoom out) che non necessita dello spostamento fisico della cinepresa. Storicamente il suo impiego nasce per il telescopio in astronomia e successivamente per questioni militari. La sua apparizione in ambito creativo per fotocamere risale al 1959. In analogico è un movimento di lenti, mentre in digitale è un ingrandimento dell’immagine elaborata dalla videocamera.  A differenza di un carrello che muove la cinepresa lasciando lo spazio uniforme, lo zoom crea un cambiamento prospettico irreale per l’abitudine dell’occhio umano. Questo movimento, al pari di un carrello, crea una perdita della messa a fuoco e necessita di un aggiustamento sulla variazione della distanza dal soggetto.

Martin Scorsese ammette di avere una predilezione per questa tecnica senza nasconderne l’utilizzo e nutre un fastidio notando l’abuso che altri ne fanno, ponendo buon esempio l’utilizzo che ne fece magistralmente Mario Bava.  Nel cinema è stato adoperato per dare continuità di visione senza stacco di montaggio, passando quindi da un tipo di inquadratura (stretta o larga) ad un altro senza fermare la ripresa. Un altro utilizzo è di porre l’attenzione ad uno stato d’animo o ad un qualcosa presente nell’inquadratura, lasciando proseguire la scena eliminando lo stacco in montaggio (o l’utilizzo dell’occhio di bue che in certi casi nel cinema degli albori formava un cerchio intorno ad un particolare o dettaglio importante). Racconta Sydney Pollack che per girare “The firm” (1993) ha voluto scene con inquadrature in movimento e con zoom per aumentare il malessere ed instabilità necessari alla storia, rimarcando l’importanza di tecnicismi motivati. Woody Allen dice di usare lo zoom per non tagliare le scene così da poter stringere su un viso per avere un primo piano o tornare su campo lungo, svolgendo così maggior parte di montaggio sul set anziché in sala. Contrario era Wim Wenders, che si diceva addirittura terrorizzato dall’utilizzo dello zoom, ma fu lavorando sul set con Michelangelo Antonioni che cambiò idea capendo l’ottimo uso che se ne poteva fare.

Unito ad un movimento di carrello e ad una panoramica, lo zoom non viene percepito ed il taglio dell’inquadratura varia di profondità (vedi “Prova D’Orchestra” – Federico Fellini, 1979). Ma al di là di una continuità ed un piacere visivo, lo zoom può essere sottolineatura di uno stato d’animo, come accade in “Accattone” (Pier Paolo Pasolini, 1961), creando interesse sul personaggio inquadrato, dove lo zoom interviene per indicare allo spettatore un cambio d’umore del personaggio sul quale viene posta l’attenzione.

Brian De Palma ha adoperato molto spesso lo zoom nelle sue opere (vedi ad esempio “Carrie”, 1976). Nel suo “Domino” (2019) utilizza ad inizio film un lento “zoom in” durante il dialogo fra i due personaggi: mentre loro parlano l’inquadratura  ci accompagna lentamente a mostrarci sul tavolo la pistola dimenticata, che più tardi sapremo quanto al protagonista  fosse necessaria. Il lento movimento crea suspance: cosa ci sta andando a mostrare il regista? Inversamente l’ingrandimento può partire da un punto ed allargarsi a mostrare il contesto intorno al soggetto ripreso. Sostituisce il movimento fisico della cinepresa, dando l’effetto percepibile di una compressione dell’immagine. L’attenzione non è sullo spazio ma su ciò che è al centro dell’inquadratura. E’ un movimento largamente usato nel cinema casalingo, perché semplice, immediato ed alle prime armi divertente nel suo distorcere l’immagine, permettendo di avvicinarsi senza muoversi fisicamente; effetto amatoriale che viene riproposto nel cinema per accrescere il senso di realismo ed amplificare l’immedesimazione dello spettatore (vedi “The Big Short” – Adam McKay, 2015). E’ il voyerismo per eccellenza, permettendo di spiare da lontano andando ad ingrandire un dettaglio. Usato anche per una ripresa fissa ritaglia l’inquadratura in fase preparatoria senza movimento di focale durante la registrazione. Al banco di montaggio l’effetto zoom può essere aggiunto con programmi predisposti, spesso adoperato per creare movimento su riprese giudicate troppo statiche o su fermo immagine (vedi i titoli iniziali di “The Devil’s Rejects” – Rob Zombie, 2005).

I documentari musicali che riproponevano concerti o brani con immagini di sottofondo, specialmente negli anni ‘60-’70, facevano spesso uso dello zoom per creare questo movimento avanti-indietro molto veloce, anche in sintonia con lo stato lisergico del periodo: vedi “The Velvet Underground And Nico: A Symphony Of Sound” (Andy Warhol, 1966) oppure “London ’66-’67” (Peter Whitehead, 1967).

Chi ne ha fatto un vero e proprio stile riconoscibile è certamente Stanley Kubrick che ha utilizzato questa tecnica specialmente per partire da un punto ed allargarsi, dando un effetto di allontanamento e di esposizione descrittiva. Pensiamo ai momenti di follia di Jack Nicholson in “ The Shining” (1980), ma soprattutto a “Barry Lyndon” (1975) nell’introduzione di quasi ogni cambio di scena.

  

C’è una tecnica poi che prevede il movimento manuale della cinepresa combinato allo zoom creando una deformazione che può essere usata come effetto speciale. Questa tecnica venne utilizzata da  Alfred Hitchcock nel film “Vertigo” (1958) e prende il nome di Dolly Zoom, noto in Italia come Effetto Vertigo. Nel film citato è stato usato nei momenti in cui James Stewart ha vertigine e, guardando in basso, il suolo sembra allontanarsi con il parallelo allungamento delle pareti circostanti.

L’Effetto Vertigo viene impiegato in molti film horror (vedi “Poltergeist” – Tobe Hooper, 1982) proprio per il senso di deformazione del luogo, ma soprattutto per destabilizzare l’ambiente in un momento di disorientamento o smarrimento emotivo del personaggio (vedi “Apollo 13” – Ron Howard, 1995). Ne fa uso Martin Scorsese in “Raging Bull” (1980) ed è un trucco che viene ancora preso in considerazione anche in grandi produzioni: Peter Jackson allunga lo spazio per rendere sinistro un sentiero in “The Lord Of The Rings: The Fellowship Of The Ring” (2001).

Lo zoom nella sua caratteristica straniante è stato ampliamente utilizzato nel cinema di serie B: già nei titoli di testa di “Shaft”  (Gordon Parks, 1971) vediamo un movimento di camera a mostrare la città dall’alto e poi una discesa in zoom verso la strada. Oppure nei cappa e spada dei samurai per inquadrare velocemente l’espressione reattiva di un personaggio, vedi “Hung Hsi-Kuan” (Chia-Liang Liu, 1977). Ugualmente nel genere horror dove l’esperienza di ottica innaturale pone una immediata attenzione su qualcosa (“The Exorcist III” – William Peter Blatty, 1990 ). Anche nei western c’è stato un ampio utilizzo dello zoom: Sergio Leone (“C’era Una Volta Il West”, 1968) ci ha accompagnati lentamente verso gli occhi del protagonista, contemplando l’attesa di un duello.

Immancabile poi il thriller che ne sfrutta l’immediatezza d’osservazione, come una spinta alle spalle dello spettatore per obbligarlo ad avvicinarsi o allontanarsi (vedi “Profondo Rosso” – Dario Argento, 1975). Ne ha fatto stile Wes Anderson che frequentemente lo ha utilizzato nel suo cinema (vedi “The Grand Budapest Hotel”, 2014) così come Lars Von Trier nel restituire una ripresa di approccio documentaristico per il modo in cui segue i personaggi, con scatti di zoom improvvisi che aumentano lo stato di ansia tipico dei suoi film (vedi “Dogville”, 2003).

E’ una tecnica che è tornata di moda nel cinema moderno nei film che calcano i generi sopra citati: Quentin Tarantino per i samurai di “Kill Bill:  Volume 1” (2003) e “Kill Bill: Volume 2” (2004), per la tensione da serie B in “Death Proof” (2007), per il western di “Django Unchained” (2012). Riproponendo questi generi torna efficace usarne gli stili dell’epoca; è ciò che ha capito Luca Guadagnino girando il suo “Suspiria” (2018) dove lenti zoom aumentano l’ansia e allo stesso tempo riportano lo spettatore alle atmosfere anni ’70. Lo stesso ha fatto Steven Spielberg in “Munich” (2005) riproponendo scelte tecniche che ricordano i classici film di spionaggio. Usato con criterio, quindi, diventa una tecnica utile; in caso contrario, se abusato o sgrammaticato, diventa di cattivo gusto e controproducente, a volte mancando di logica narrativa o per palese sostituzione di un complicato carrello. Nel cinema si possono trovare invece buoni e interessanti esempi, fra i quali: “Blaznova Kronica” (Karel Zeman, 1964), Per Qualche Dollaro In Piu’” (Sergio Leone, 1965), “The Graduate” (Mike Nichols, 1967), “Easy Rider” (Dennis Hopper, 1969), “I Clowns” (Federico Fellini, 1970), “L’uccello Dalle Piume Di Cristallo” (Dario Argento, 1970), “A Clockwork Orange” (Stanley Kubrick, 1971), “La Classe Operaia Va In Paradiso” (Elio Petri, 1971), “Milano Calibro 9” (Fernando Di Leo, 1972), “Jeremiah Johnson” (Sydney Pollack, 1972), “Phantom Of The Paradise” (Brian De Palma, 1974), “Nashville” (Robert Altman, 1975), “Jaws” (Steven Spielberg, 1975), “Alien” (Ridley Scott, 1979), “Na Srebrnym Globie” (Andrzej Zulawski, 1988), “Pulp Fiction” (Quentin Tarantino, 1994), “Casino” (Martin Scorsese, 1995), “Magnolia” (Paul Thomas Anderson, 1999), “Shaun Of The Dead” (Edgar Wright, 2005), “The Darjeeling Limited” (Wes Anderson, 2007), “300” (Zack Snyder, 2007), “The Conjuring” (James Wan, 2013), “Nightcrawler” (Dan Gilroy, 2014).