Fedic

TRE MOMENTI DI ITALIA FILM FEDIC VISTI DA MARCELLO CELLA

FEDIC FOR GAZA
Storie di muri visibili e invisibili sotto i cieli della Palestina

La drammatica situazione che sta vivendo la Palestina la conosciamo tutti. Le cronache quotidiane non ci risparmiano i particolari più feroci di una guerra che ha radici lontane e non accenna a finire. Per capire più profondamente le ragioni del conflitto, ma anche solo il vissuto di due popoli che abitano da sempre la stessa terra senza mai dichiararsi fratelli, abbiamo però la necessità di sguardi laterali, obliqui, che escano dalla logica dello scontro amico/nemico. E allora forse potremo riuscire a vedere palestinesi e israeliani come esseri umani che come tutti noi sono alle prese con i problemi della propria esistenza, della propria banale quotidianità, hanno sogni, bisogni, desideri e la speranza di un mondo migliore. Proprio come tutti noi. Quindi è stato veramente molto importante che la 74^ edizione di Italia Film Fedic a Montecatini abbia dedicato quest’anno una sezione del proprio festival adun approfondimento del vissuto di questi due popoli attraverso quattro cortometraggi realizzati fra il 2019 e il 2020 estremamente significativi per capire alcune dinamiche della società israeliana e palestinese, senza avere necessariamente un taglio direttamente politico, ma accomunati da un profondo sguardo umanistico sui personaggi e le vicende raccontate. Personaggi che, pur diversissimi nella loro collocazione sociale e generazionale, sono impegnati ad affrontare e superare i muri visibili e invisibili che si profilano lungo le loro esistenze in un percorso di conoscenza e di consapevolezza che spesso rimette in discussione valori e scelte di vita ritenute solide, ma che presentano sempre più vistosamente qualche crepa nella loro apparente ragionevolezza.

 

“Maradona’s legs” di Firas Khoury è ambientato durante i mondiali del 1990 e i due fratellini palestinesi Rafat e Fadel, tifosissimi del Brasile, di cui indossano le magliette verde-oro, stanno cercando di completare il loro album di figurine con quella che non riescono a trovare perchè molto rara, quella con le gambe di Maradona. Il premio per il primo che completerà l’album è una consolle Atari, una lontana parente delle attuali piattaforme di videogiochi. Il regista segue i due bambini nel loro peregrinare all’interno del loro villaggio e in quelli vicini fino a Betlemme alla ricerca dell’agognata figurina con un taglio documentaristico, ma anche con un tocco poetico e un pizzico di ironia per raccontare la storia di una passione infantile che segnerà probabilmente la vita futura dei due bambini. Alla fine i due ragazzini rinunciano al premio, quando capiscono che in cambio dovrebbero lasciare al negoziante l’amato album di figurine e con esso tutte le gioie e le difficoltà che hanno dovuto affrontare per completarlo. In fondo, capiscono, che il risultato finale del premio, come anche del mondiale, perso dal Brasile, non è poi così importante. L’importante è il cammino, la strada già fatta e quella ancora da fare (Eduardo Galeano docet). Mentre cominciano ad intravedersi i primi segni di una tragedia (le notizie alla radio che fanno capolino qua e là durante le peregrinazioni di Rafat e Fadel) che purtroppo è solo l’inizio di una tragica escalation di odio e di conflitti.

Odio e conflitti che sono ben presenti in “The present” della regista Farah Nabulsi, drammatico e viscerale racconto di un padre e di sua figlia alla ricerca di un regalo per la moglie e madre in occasione del loro anniversario di matrimonio. Quella che per tutti noi sarebbe una normale decisione di acquisto si trasforma per Yusef e sua figlia Yasmine in una odissea infernale perchè tra la loro casa e il villaggio dove i due devono andare comprare il regalo (un frigorifero nuovo) e fare la spesa devono superare un check point sorvegliato giorno e notte dai soldati israeliani che non risparmiano umiliazioni e vessazioni di ogni sorta alla popolazione palestinese,  costretta ogni giorno alle lunghissime procedure per il controllo dei documenti  (con la possibilità spesso di essere ricacciati indietro a causa di ogni minima infrazione), mentre i cittadini israeliani possono attraversare il posto di blocco senza problemi (nei check point dei soldati israeliani in genere ci sono sempre due passaggi, uno  destinato alla popolazione ebraica e uno riservato alla popolazione palestinese, molto più restrittivo). Alla fine di una giornata in cui il bellissimo racconto del rapporto di amore e complicità che si instaura fra Yusef e Yasmine viene messo a dura prova dalle regole assurde a cui devono sottostare i palestinesi, i due riescono a portare a casa il regalo per l’anniversario di matrimonio (grazie ad una coraggiosa iniziativa della bambina), ma il senso di violenza, sconforto e umiliazione che i due si portano addosso è quella di un intero popolo. E non preannuncia nulla di buono.

Le contraddizioni di cui racconta invece “White Eye” di Tomer Shushan fanno interamente parte della società israeliana, così simile spesso a quella occidentale. Un ragazzo cammina in una zona periferica di una grande città di sera e ritrova casualmente la bicicletta che gli è stata rubata qualche giorno prima. Solo che è chiusa con un altro lucchetto. Da questo casuale ritrovamento si dipana una vicenda di immigrazione clandestina che coinvolge non solo il ragazzo, ma anche una pattuglia della polizia che transita nella zona e gli operai immigrati e irregolari che lavorano in nero in una vicina azienda alimentare. Uno dei dipendenti africani dell’azienda viene accusato del furto, viene arrestato dalla polizia e rischia il rimpatrio con tutta la sua famiglia. Il ragazzo, resosi conto della drammatica situazione che ha involontariamente causato, si offre di pagare la cauzione, ma è troppo tardi. A fare le spese della sua rabbia e della sua frustrazione sarà la stessa bicicletta, fatta a pezzi e abbandonata sulla strada dal suo stesso proprietario. Ma a pezzi va anche la dignità di questi lavoratori clandestini, così simili alle migliaia di immigrati condannati alla schiavitù anche da noi in nome del profitto, e quella di un Paese che si dichiara democratico, ma contiene in sé molte zone oscure.

“Long distance” della regista Or Sinai è invece una storia tutta al femminile e tutta individuale. Una storia di solitudine che vede come protagonista un’anziana signora israeliana, vedova, che vive sola ed ha la figlia che sta per partorire al di là dell’Oceano. La donna sta progressivamente perdendo la vista e non riesce a telefonare alla figlia perchè non distingue


più con esattezza i numeri sulla tastiera del telefono. Perciò si affida a vari passanti che stazionano nei pressi della sua abitazione per farsi aiutare. L’impresa non è facile. Fra diffidenze, cinismi e piccoli, significativi atti di solidarietà, la donna, con gentilezza, ma con forte determinazione, riesce alla fine a parlare con la figlia che ha appena partorito una bambina, grazie all’aiuto di un uomo che non cede al sospetto di una richiesta apparentemente così bizzarra. Un memorabile ritratto di solitudine e coraggio femminile che ricorda molto i personaggi fragili e tormentati di una grande scrittrice israeliana, Zeruya Shalev. Alla fine le distanze vengono superate, ma la lotta per superare i muri visibili e invisibili della sua esistenza è ancora lunga. Per quanto la danza solitaria nel finale del film, tutto giocato sui mezzi toni della recitazione della protagonista, la magnifica attrice Leora Rivlin, faccia ben sperare per il futuro.