3D
di Marco Rosati
Il cinema tridimensionale ha avuto i suoi alti e bassi lungo un secolo, trovando periodi fortunati grazie alla spettacolarità dell’invenzione unita ai generi proposti, ma anche momenti vuoti dovuti alla complessità del processo produttivo e distributivo. Ripercorrendo la storia di questa tecnica è necessario fare un salto nel 2007, quando il Museo della Cinémathèque Français restaurò “Le Chaudron Infernal” (1903) di Georges Melies e si accorse che sovrapponendo le due pellicole si otteneva un naturale effetto stereoscopico. Ma ufficialmente il primo film 3D distribuito è stato “The Power Of Love” (Nat G. Deverich e Harry K. Fairall, 1922), con l’utilizzo di un sistema chiamato anaglifo, che consisteva nella proiezione di una doppia pellicola filtrata in rosso e verde, diventando il primo film che usasse pellicole parallele durante la proiezione ed appositi occhiali mediatori per vederne l’effetto. Dopo una fase di sperimentazione iniziale, il cinema 3D prende ufficialmente piede nel 1950 parallelamente all’avvento del colore, con proiezioni a doppia pellicola e filtri polarizzatori: i noti occhiali anaglifi di cartoncino furono adattati al cinema dopo un loro già esistente utilizzo per i fumetti. La complicata proiezione di questi film prevedeva due proiettori sincronizzati con una lunghezza limitata e variabile fino a 1800 metri di pellicola, prevedendo un intervallo durante la proiezione di ogni film.
La complicazione del supporto portò, tre anni più tardi, al primo declino di questa invenzione. Immaginate se durante la proiezione una delle due pellicole proiettate in parallelo avesse dovuto ricevere una riparazione sul momento: le tempistiche sarebbero state condizionate dal mantenere attiva la sincronizzazione delle due bobine. Questo necessitava l’utilizzo di più proiezionisti, che si sommavano alle già duplici spese di riproduzione. Capitava ovviamente che le pellicole perdessero il sincronismo e questo causava un immediato disturbo visivo per lo spettatore, oltre a sbalzi visivi nel passaggio tra una inquadratura e l’altra. L’esperienza spettatoriale diventava invivibile e faticosa per la vista. Quindi per un periodo l’esperienza tridimensionale cessò, per poi tornare sulle scene con una serie di film realizzati in modo stereoscopico, ma le stesse ragioni passate ne causarono un ulteriore insuccesso e perdita di denaro.
Del cinema a 3 Dimensioni non si ebbe notizia fino alla soglia del 1960, quando, con un sistema di realizzazione evoluto, la tecnologia fu applicata con più sicurezza ai film di seconda fascia o di serie B, ovvero produzioni a basso costo, spesso per riutilizzare set già pronti, ed offrire più spettacolo agli spettatori. Questo ritorno fu voluto dallo stesso produttore che aveva introdotto il 3D nei primi anni ‘50.
Oltre a nuove tecnologie di realizzazione, la finale stampa della bobina prevedeva che le due pellicole, che un tempo viaggiavano parallelamente in proiezione, adesso venivano stampate in una unica pellicola. Nella cabina quindi era necessario un solo proiettore che avesse particolari lenti per ovviare il problema comunque presente di immagini troppo scure dovute alle due pellicole sommate, ma con una riproduzione sicura ed una buona immagine panoramica.
La tecnologia venne chiamata “sopra e sotto” e con questo sistema vennero realizzati oltre 30 film nell’arco di venti anni ed in un conteggio totale si ha che nei primi 80 anni di secolo cinematografico siano oltre 140 i film creati in funzione del 3D, di tutti i generi ma specialmente i più popolari per le grandi masse, per i giovani e per le famiglie, quindi generi horror, western, musical, animazione.
Ma di cosa si tratta? Il cinema a tre dimensioni, comunemente noto come 3D o più giustamente nominato “cinema stereoscopico” è un tipo di realizzazione che, mediante accessori particolari, crea l’illusione di vedere l’immagine uscire dallo schermo piatto, formando quindi una illusoria tridimensionalità. Gli accessori necessari sono appositi proiettori, spesso corredati da schermi predisposti, mentre allo spettatore vanno degli occhiali polarizzati. Questi occhiali hanno due lenti di colore diverso, una rossa e l’altra verde o blu, colori complementari che sommati danno luce bianca. La lente rossa viene corrisposta all’occhio sinistro, permette di vedere la parte dell’immagine con filtraggio ad essa complementare, mentre l’altra lente permette di vedere la parte con filtraggio rosso. Con l’unione delle due prospettive il cervello ne codifica una forma dell’immagine che non è quella reale della visione piatta dello schermo. L’immagine che vediamo proiettata viene mostrata solo a uno dei due occhi, mentre all’altro occhio viene oscurata per una frazione di secondo; operazione che si ripete per entrambi gli occhi in modo ciclico. Il nostro cervello combina la visione dei due occhi e attraverso essi ne misura il movimento, la prospettiva e il modo in cui il soggetto protagonista si relaziona con il suo contesto.
Attualmente l’utilizzo del 3D viene destinato esclusivamente a film che ne valorizzino le caratteristiche, quindi generi di animazione dove i personaggi hanno movimenti ben differenti da quelli umani, o dove l’azione è costante o per particolari scene colossali.
La tecnologia che viene impiegata per la ripresa tridimensionale è caratterizzata da cineprese o videocamere con duplice esposizione o doppio obbiettivo. Esse in fase di registrazione registrano contemporaneamente due immagini, di circa 6 cm. sfalsate, ovvero la media distanza degli occhi umani fra loro. Precedentemente venivano usate due cineprese posizionate in modo da riprendere la stessa immagine con quella leggera differenza. Durante il secolo il 3D ha sempre mosso passi incerti per i costi produttivi di realizzazione e distribuzione e soprattutto per l’accoglienza non sempre positiva del pubblico, disturbato dal dover necessariamente utilizzare degli occhiali, spesso ingombranti per chi già dispone di occhiali da vista. Senza il loro utilizzo la visione è fastidiosa perché la codificazione non ha tutti gli elementi necessari per una buona lettura. Negli ultimi anni le scene tridimensionali sono riservate non a tutto il film ma solo ad alcune scene potenzialmente idonee.
Oggi la sperimentazione tridimensionale ha portato alla creazione di particolari visori che si posizionano come maschere davanti agli occhi ed escludono la realtà circostante immergendo in una esperienza estremamente reale nel vivere e spostarsi fisicamente dentro immagini che appaiono nel visore. Si sono create comunità di affezionati che condividono o vivono esperienze proprie in quello che è stato nominato “metaverso”, spesso finalizzato ad esclusive esperienze di gioco. Questi visori vengono impiegati anche in ambiente lavorativo: in un ufficio spoglio, una volta messo il visore, si ha la possibilità di gestire tutto virtualmente, accedere alla posta elettronica, creare oggetti virtuali, arredare la stanza in cui vivi, gestire calendari e agende. Nel campo medico è molto utile in chirurgia o nella ricerca, perché permette maggiore malleabilità quando, insieme al visore, vengono utilizzati anche guanti. Ciò che accadeva in “The Lawnmower“ (Brett Leonard, 1992) o in “Minority Report” (Steven Spielberg, 2002) adesso è realtà.
Alcuni esempi cinematografici in cui vivere questa esperienza tridimensionale: “Niagara Falls” (Gordon Douglas, 1941), “Il Più Comico Spettacolo Del Mondo” (Mario Mattoli, 1953), “House Of Wax” (Andre De Toth, 1953), “Melody” (Ward Kimball e Charles August Nichols, 1953), “Flesh For Frankenstein” (Paul Morrissey, 1974), “Jaws 3D” (Joe Alves, 1983), “Freddy’s Dead: The Final Nightmare” (Rachel Talalay, 1992), “Spy Kids 3D: Game Over” (Robert Rodriguez, 2003), “Polar Express” (Robert Zemeckis, 2004), “Toy Story” (John Lasseter, 1996), “Dracula 3D” (Dario Argento, 2012), “Alice In Wonderland” (Tim Burton, 2010), “Pina” (Wim Wenders, 2011), “Life Of Pi” (Ang Lee, 2012 ), “Spider Man: Far From Home” (Jon Watts, 2019), “Mad Max: Fury Road” (George Miller, 2015), “Noah” (Darren Aronofsky, 2014), “Dune” (Denis Villeneuve, 2021), “Avatar: The Way Of Water” (James Cameron, 2022).